Vengono presentati alcuni racconti e leggende scritti dalla Professoressa Elena Fattarelli, nel ricordo di ciò che si è sentita narrare nell'infanzia. Racconti veri, narrati alla sera, quando di andava "a stalla". Ci si riuniva tra vicini, nella stalla prescelta. Solitamente la più spaziosa, la più pulita, con tanta bella "foglia" di castano asciutta. Qui i bambini si sedevano e si addormentavano al chiacchierio dei grandi. Ma non dormivano quando venivano narrate le "storie", spesso storie vere. Oppure venivano raccontate la sera quando ci si ritrovava fra vicini per sfogliare le pannocchie di granoturco.
Dalle opere di vari scrittori che hanno tenuto presente, nelle loro descrizioni, il Legnone, ci sono pervenute varie testimonianze riguardo alla presenza di orsi e di lupi sul nostro monte. C’era anche un modo di dire, usato dalla nostra gente “Urs del Legnun”. Si dava tale epiteto ad una persona ritrosa, rozza, poco avvezzo a stare tra la gente. Ed era anche ai ragazzi che avevano “ soggezione” degli adulti. E si narrava anche un fatto, con protagonista un orso, capitato ad un nostro antenato, che aveva il gozzo. Scendeva il pastore, da un sentiero del monte, allegro, perché aveva trovato nell’anfratto di una rupe o nel buco di un albero, un bel favo di miele. Se lo teneva stretto. Ma ecco che, giunto ad una svolta, sul ciglio di un precipizio, si trova di fronte un orso. Senza fiato, si ferma. E l’orso, con una zampata, gli toglie il miele ed anche il gozzo. Al racconto, tutti ridevano. Si sentivano vincitori dell’orso e del gozzo, il male che affliggeva nei tempi passati molta povera gente del Colichese.
“El poor…” e veniva indicato nome e soprannome. Ebbene costui, un mattino presto, durante l’ottavario dei morti, non seppe resistere. Anziché prendere verso la via della chiesa, prese di nascosto, quella dei boschi. Di nascosto aveva preso anche il fucile. La caccia era proprio una passione. Su per i sentieri, al buio. Con il suo passo sì portó fino alla “Scèra”, quando le prime luci lo raggiunsero. Guardò. Il cielo cominciava a farsi bianco verso la Valtellina. Guardò ancora sopra i grandi castani una striscia di luce e poi giù sul sentiero. E vide. Era il suo “povero” nonno, vestito da vescovo. Era davanti a lui e lo guardava col braccio teso e l’indice puntato. Bianco, con la barba. Il giovanotto, solo il tempo per girarsi e giù a gambe levate verso la chiesa di Villatico, con desiderio di dire una preghiera. Quando narrava il fatto, a chi chiedeva: “ com’era? Vestito da vescovo?”. Perché era difficile sapere come fosse, rispondeva che era come uno dei quattro vescovi di argento, che nelle feste grandi venivano messi sull’altare maggiore della chiesa di Villatico. Il nonno, che chiedeva preghiere al nipote, nel biancore dell’alba, aveva l’evanescente luce dell’argento.
Questa volta la donna è la più forte. Anche di lei si tramandavano nome e parentela. Dunque viveva la “pora Pinina” nella sua casa con il marito e i bambini piccoli. Era bella. Le grosse trecce bionde avvolte sul capo, come si usava allora. Il marito aveva un difetto, tardava sempre a tornare a casa la sera. Era sempre a lavorare nei campi. Lei lo sapeva, non aveva altri sospetti. Non voleva però che il suo uomo restasse fuori casa dopo il suono dell’Ave Maria. La gente perbene rientrava prima. Perciò decise di fare qualcosa. Una sera, prima che calassero le ombre, andò giù nel piano, dove avevano i filari di gelso e dove lui si trovava. Lo vide da lontano. Scorse il carro ed il cavallo che, libero, pascolava. Aveva tutto il tempo per il suo piano. Si fermò dietro un grosso murun (gelso). Si tolse in fretta la lunga sottana nera, il giubbetto. Restó in camicia bianca e lunga, fin sotto le ginocchia. Si sciolse in fretta le lunghe trecce bionde e lasciò che i capelli le coprissero parte del viso. Incominciava ad imbrunire. Era il tempo. Sì abbracciò al tronco contorto del gelso oscuro. Fece rumore. Lui, lento, si stava avvicinando al suo carro. La vide, impallidì e non fu più capace di muoversi. Era la strega. Poi con la fretta data dalla disperazione, imbrigliò il cavallo, legò di cinghie al bilancino e ai timoncelli e via. Lei intanto, sicura che lui da quella parte non avrebbe più guardato, aveva avuto il tempo per rivestirsi e di corsa raggiungere la casa, per la via dei campi. Abitava alla Palerma. Lui col carro doveva seguire la strada lunga. Giunse dopo di lei. Si accasciò su una sedia e non parlava. Lei, indaffarata, intorno al camino, si preparava a versare la farina nel paiolo della polenta. Non aveva tempo di guardarlo in faccia. Ma lo sentiva. Sentiva la sua pena e la sua voglia di parlare, di sfogarsi. Sapeva aspettare. E lui ad un certo punto: “Cus’è el m’è capitaa!”. ( cosa mi è capitato). La donna lo lasciava raccontare e intanto girava la polenta nel paiolo. I bambini, senza fiatare, guardavano la fiamma. Alla fine la polenta fu pronta, venne versata sul tagliere al centro della tavola. E la donna, finalmente libera, ebbe il tempo per dire al marito: “cose che capitano a chi resta fuori casa dopo il tocco dell’Ave Maria”. La Pinina dopo cena, come era abitudine, iniziò il rosario. Tutti erano seduti attorno al camino. Quella sera senti il suo uomo che pregava con voce più forte. Allora sorrise. La strega, anzi la donna, aveva vinto.